venerdì 15 ottobre 2010

Sulla città perfetta

Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta nè fissare la data dell'approdo. Alle volte basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s'incontrano nel viavai, per pensare che partendo di li metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d'istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. 
Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto. 
I. Calvino, Le città invisibili


Qualche riga vagamente citazionista ma fulminanti sulla mia Roma perfetta, come seguito a un filo di pensieri costante dallo scadere di questo primo mese di residenza.

sabato 2 ottobre 2010

Una cosa felice e una triste

Cioè una triste che sembra felice e una felice (forse) che sembra triste.
Cioè insomma due cose tristi.
Che però sono felici.
Perché sono belle.
Anche se sono terribili.
Ma forse allora non sono belle.
Sono confusa.
...

Comunque due storie che vale la pena di leggere:
Giacomo, fanciullo di domani
Giulia, donna di ieri

mercoledì 22 settembre 2010

Due immagini catturate

Eh, no questo lavoro non mi lascia tempo&testa come quello di prima, quindi ci risiamo con i tempi biblici di aggiornamento del blog.

Oggi solo due chicchine:

1. Sto girando per diversi siti a tema "Fashion", ed è divertente finché riesci a dribblare gli orrori (a chi è forte di stomaco consiglio l'intera galleria). A un certo punto però ti imbatti in questo (il cerchio arancione è opera mia, ovviamente)


ti si apre uno squarcio, capisci tutto e gridi Eureka! (con buona pace dei colleghi): che senso ha, che interesse ha tutto questo? Semplice: IO, IO che sto al centro del mondo e mi fotografo vestita o non vestita, IO che blatero su me stessa e mi faccio blaterare addosso, IO IO IO IO io così tante volte che occupa l'intera tag cloud (l'altro tag è "Gallery" - di IO, ovviamente): tanti IO piccoli che credono di essere l'IO unico, il più grande e il più amato.
Che bellezza, la forza dei numeri.

2. Sempre sull'onda dei messaggi impliciti vi lascio con questo flash di Repubblica (?!) di oggi:

probabilmente l'associazione violenza-extracomunitario è inevitabile a prescindere dal contesto. Per le forze dell'ordine o per i giornalisti?

giovedì 9 settembre 2010

Si ricomincia?

Si ricomincia.
Dopo un mese esatto di spostamenti, viaggi e delirio ho cominciato una nuova vita, altrove.
Mi porto dietro i segni di quella vecchia, ancora, e in fondo sono sempre io anche se in rapido cambiamento. Per esempio ho disimparato a prendere gli autobus giusti, a quanto pare, e sto facendo dei simpatici viaggi su e giù per Roma un po' a pé un po' de corsa.

Ok, enough about me, parliamo di robe più interessanti: per esempio voi rifiutate con affetto?
Iniziativa di alcuni comuni prevede di installare spazi appositi (cassonetti non mi piace) in cui lasciare oggetti usabili, a cui vogliamo bene e che non meritano di essere gettati: da questo spazio (una vetrinetta) chi passa può prendere ciò che gli piace o gli serve...
Immaginate che bello essere un bambino, vedere un giocattolo in una vetrina per strada e poter lasciare il suo per prenderlo (o prenderlo e basta): non è meraviglioso! stessa cosa per le borse! ...ehm... o cose più utili magari.
Insomma è un'idea fantastica del gruppo Publink, che spero si diffonderà moltissimo a breve ma per ora coinvolge solo i fortunati abitanti di Ravenna Rivignano Rovereto Mestre Matelica Venezia.

venerdì 6 agosto 2010

due segnalazioni di Saviano

un articolo del Nostro su Nazione Indiana (no, non sto leggendo solo lì in questi giorni). Uscita il 24 maggio l'ho trovata solo ora.
La lingua mi sembra un po' affaticata e l'argomento in sé è diventato meno scottante, rimosso dalle prime pagine (mute) dei giornali dopo una ristrutturazione. Speriamo che davvero, come ha detto Berlusconi, ne sia cambiato radicalmente il senso.

E poi vi segnalo anche questo articolo, stessa fonte, ma molto più vecchio. Novembre 2004 c'è scritto. E si sente la forza violenta, le parole vomitate, anzi sparate con precisione. Perfino un banale "Pecunia non olet" ha un senso, sta nel mezzo e spara la sua verità.
È la storia di Gelsomina, stuprata torturata e uccisa perché per un certo periodo aveva frequentato la persona sbagliata. È la storia di tutte le donne non rispettate, nelle parole di Saviano, è la storia di una terra offesa in cui si impara a sparare prima che a guidare. E la nostra impotenza (noi, laureati, noi polentoni, noi cervelli accesi) è quasi totale.

giovedì 5 agosto 2010

Ancora su Blu

Su Nazione Indiana ho trovato altri due video del nostro street artist preferito (l'unico per ora).

Questo più geometrico, più concettuale forse.
Questo invece più biologico, ma ancora lontano dalla fascinazione di Big Bang Boom.
Mi piace veder i colori reagire in questi spazi urbani, mi sembra che li riempia di nuovo dell'amore per le cose che di solito si tramuta in cura. Una cura ben strana, direbbero alcuni - ma è pur vero che le tracce di questi filmati restano, misteriose, sui muri e sui tubi, nei cortili e sulle facciate a testimoniare un passaggio, una scia d'amore.
La permanenza del digitale è fondamentale, visto che spariscono i disegni, scavalcati da altre linee e altre geometrie - non senza angoscia da parte mia: come coi caleidoscopi, ho sempre paura che l'immagine che amo e che perdo ora non riuscirò a ritrovarla domani. Non che non riuscirò a trovarne una uguale, ma è proprio quella, la stessa che mi mancherà.

Comunque ho saputo anche che recentemente Blu ha completato un lavoro a Varsavia, appena prima dei festeggiamenti per la liberazione della capitale dal nazismo. Un po' didattico forse, ma l'effetto finale è comunque grandioso, un urlo.

mercoledì 4 agosto 2010

frammenti Sulla situazione dell'Università italiana, finalmente

Oggi vi propongo un articolo interessante di Giancarlo Alfano (su Nazione Indiana), la cui scrittura apparentemente limpida ho conosciuto e amato lavorando per la tesi.
Parla lucidamente della situazione dell'università italiana, molto più di quanto crede (forse) quando dice che

“L’Università non è un luogo di trasformazione; è, al contrario, un luogo di conservazione: si trasmette un sapere stabilizzato. [...] L’Università, è bene ricordarcelo, produce discorsi interni al sistema di potere nel quale essa esiste.”

Ma contemporaneamente l'Università nel suo discorso è luogo di critica, di ragionamento e di democrazia, nell'elaborazione di canoni e nella scelta di linee interpretative che poi si ripercuotono su intere generazioni.
Io non credo che sia una "democrazia illusoria", simile a quella politica, anzi mi piace pensare che l'illusione sia proprio che scegliere di insegnare un autore o un altro, una corrente o un'altra non abbiano effetti sulla società e sulla produzione culturale del nostro paese. 
Lui stesso fa una serie di esempi interessanti sui collegamenti fra momenti di interesse particolare per autori o scuole letterarie e come si sono espressi poi negli autori di quel periodo. 
Il suo discorso quindi mi sembra sottilmente contraddittorio, o per lo meno mi piacerebbe che fra conservazione ed innovazione l'università tendesse molto più all'innovazione anche in ambito letterario, come ci si aspetta da qualsiasi facoltà scientifica (comprese le Social Sciences).


Questo discorso resta un po' frammentario, una scheggia di riflessione supportata dal commento di Stefano Jossa (l'ultimo, finora) ma mi sembrava interessante, in questo momento in cui pochissime delle persone che conosco sono riuscite (per forza o per amore) a restare in ambito universitario e si stanno disperdendo per il mondo come scintille nel buio. Cerco di seguirne la scia, mentre anch'io mi allontano.

Photo by Tanja

martedì 3 agosto 2010

Due sguardi sull'Italia, anzi su Roma

Da qualche tempo ormai scorro gli articoli di Italia dall'estero, un raccoglitore di articoli che interessano il nostro paese usciti su quotidiani stranieri; niente di eccitante, di solito, come sempre uno stato visto da un altro paese viene raccontato in modo semplice, semplificato.

Oggi però ho trovato due cose interessanti, per una volta due articoli che illuminano certi modi di fare del nostro paese.

Il primo è inglese, e con acume e lucidità inchioda certi modi di fare del nostro giornalismo nei confronti della Chiesa (quella con la C maiuscola). (qui l'originale)

Il secondo invece è spagnolo, un po' meno interessante, ma dice cose illuminanti sulla nostra (fra poco Mia) capitale. (qui l'originale).

Li posto, oltre che linkarli, per poter sottolineare qualche passaggio. Buona lettura :)


giovedì 29 luglio 2010

Lettera sul cammino di Santiago

In questi giorni in cui tanta gente è in giro col foulard al collo è bello leggere storie di cammino. Soprattutto da parte di gente che il fazzolettone non lo porta.
È bello anche leggere racconti scout, ma è sempre difficile per chi scrive tenere separate le tradizioni di un gruppo, di un reparto da quelle che sono effettivamente abitudini comuni, dilagate nella comunità (non è interessante pensare agli scout come una comunità?).

Per questo vi linko una lettera scritta dopo il cammino di Santiago da una persona che se è stata scout non lo dichiara, ma che sa trasmettere un certo senso del camminare, del perdersi per ritrovarsi.

Il senso della difficoltà che si può fare quotidiana e rendere piena l'esistenza. Sapere che puoi camminare sotto la pioggia, resistere agli elementi e ritrovarti poi, asciutto, e molto più te stesso.


martedì 27 luglio 2010

Il piccolo circo di Alexander Calder


Fra i miei amori recenti e viscerali campeggia ultimamente Calder. I suoi giochi di fil di ferro sono imprendibili con la macchina fotografica, credo che anche la videocamera sarebbe inutile. Forse una cinepresa, con i fotogrammi che saltano e il suo rumorino di fondo, indefinibile e, per noi digitali, un filo magico.

Calder, come Brancusi, mi chiama dal profondo, riconosco in loro una parte di me misteriosa ma innegabile.

Per questo ho amato questo articolo su Nazione Indiana ancora prima di rendermi conto che era proprio di lui, di Calder, che si stava parlando: di lui e del circo di fil di ferro costruito a Parigi nei meravigliosi anni 1926-7.

Fra l'altro, qualche giorno fa qualcuno mi chiedeva perché non mi piace Queneau: perché non è Calder, perché i suoi giochi non conoscono l'essenzialità di questi:



ps: mi scuso per l'orribile foto ma l'oggetto era troppo affascinante per non cercare di catturarlo, almeno nella memoria.
Conservato al Moma, fotografato il 25 marzo 2010.

lunedì 26 luglio 2010

Kubideh Kitchen



Credo che la cucina sia cultura molto più di quello che sembri. Forse ne è dimostrazione che quando si è davvero appassionati di qualcosa si cerca anche di mangiare alimenti in tema. Compreso quelli che bevono succhi di frutta (albicocche?) caldi d'estate dopo aver letto Il maestro e Margherita.

In tutte quelle situazioni in cui non è strettamente necessario per sopravvivere far entrare qualcosa dentro di noi non è un gesto innocuo, ma profondamente culturale e biologico insieme.
Lo sento adesso, mentre guardo mutare le reazioni del mio corpo alla scelta vegetariana, l'ho sentito con minore lucidità quando mi sono adattata alla cucina e al clima inglese, mi sforzo di coglierne i dettagli quando mi fanno da mangiare le persone a cui voglio bene.

Per questo mi sembra bellissima l'iniziativa della Kubideh Kitchen, a Pittsburgh: una piccola cucina che serve cibo da asporto proveniente da paesi in conflitto con gli Stati Uniti.
I paesi si alternano a rotazione, in questo momento la scelta cade sull'Iran e quindi, oltre al Kubideh, piatto tradizionale, si susseguono incontri e cene a tema, una delle quali in collegamento videochat con una cena parallela in Iran.

Anche il design non è male.
Peccato non poter farsi mandare un kubideh a casa!


giovedì 22 luglio 2010

Big Bang Big... Boom!

Blu è uno street artist italiano che voi tutti (tutti!) conoscete molto poco: MALE!
Mi piacciono un sacco le cose che fa, ho visto un pochino il suo sito con il blog e la produzione. Per il poco che ne so mi sembra che il suo modo di riempire gli spazi sia interessante, un uso del colore giustificato, sempre comunicativo. Una comunicazione semplice forse, ma comprensibile, appunto. Un pugno allo stomaco senza essere realistico.
Blu riempie gli spazi, fa vivere i vuoti e modifica i pieni, inverte le parti, gioca con le irregolarità della sua "tela".
Scorrendo i walls si vede la linea cambiare, farsi più decisa dal ma anche meno sofferente. Più meditata?
Avevo già visto questa fantastica facciata a Lisbona fatta con Os Gemeos e ora è uscito il video che metto qua sotto: mi ha fatto restare a bocca aperta come una bambina. Maggiori informazioni le trovate qui.


giovedì 15 luglio 2010

All'amata me stessa

Владимир Владимирович Маяковский, All'amato me stesso

Quattro. Pesanti come un colpo.
"A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio".
Ma uno come me dove potrà ficcarsi?

Dove mi si è apprestata una tana?
S'io fossi piccolo come il grande oceano,
mi leverei sulla punta dei piedi delle onde con l'alta marea,
accarezzando la luna.

Dove trovare un'amata uguale a me?
Angusto sarebbe il cielo per contenerla!

O s'io fossi povero come un miliardario.. Che cos'è il denaro per l'anima?
Un ladro insaziabile s'annida in essa:
all'orda sfrenata di tutti i miei desideri
non basta l'oro di tutte le Californie!

S'io fossi balbuziente come Dante o Petrarca...
Accendere l'anima per una sola, ordinarle coi versi...
Struggersi in cenere.
E le parole e il mio amore sarebbero un arco di trionfo:
pomposamente senza lasciar traccia vi passerebbero sotto
le amanti di tutti i secoli.

O s'io fossi silenzioso, umil tuono... Gemerei stringendo
con un brivido l'intrepido eremo della terra...
Seguiterò a squarciagola con la mia voce immensa.

Le comete torceranno le braccia fiammeggianti,
gettandosi a capofitto dalla malinconia.

Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti
s'io fossi appannato come il sole...

Che bisogno ho io d'abbeverare col mio splendore
il grembo dimagrato della terra?

Passerò trascinando il mio enorme amore
in quale notte delirante e malaticcia?

Da quali Golia fui concepito
così grande,
e così inutile?

Teatro degli Orrori, Majakovskij

le quattro


pesanti come un colpo


a Cesare ciò ch'è di Cesare

e 
a Dio, ciò ch'è di Dio 


se io fossi piccolo


come il grande oceano


camminerei sulla punta dei piedi delle onde 
nell'alta marea 
sino a sfiorar la luna
 dove trovare un'amata 
uguale a me


angusto sarebbe il cielo 
per potermi contenere


se io fossi povero


come un miliardario 


che cos'è il denaro per l'anima 
è un ladro insaziabile 
si annida in essa
all'orda di tutti i miei più sfrenati desideri 
non basterebbe l'oro 
di tutte le Californie x2


se io potessi balbettare


come Dante, o Petrarca 
accendere l'anima per una sola 
ordinarle coi versi di bruciare
 le parole del mio amore sarebbero 
un arco di trionfo e 
pompose ed inutili 
vi passerebbero le amanti
 di tutti i secoli 
dei secoli e così sia

se io fossi silenzioso


come il tuono


gemerei, abbracciando in un tremito
il decrepito eremo terrestre 
urlerò con la mia voce immensa 
le comete torceranno le ali fiammeggianti
 e giù si getteranno, a capofitto 
per la malinconia


coi raggi degli occhi rosicchierei le notti


se io fossi buio


come il sole


ma perché ma perché mai dovrei io
 abbeverare 
con il mio splendore 
il ventre dimagrato 
della terra


morirò


e porterò via con me 
il mio amore immenso 
in quali notti
 quali malattie 
da quali Golia fui generato
 così grande 
così inutile



Smodato amor proprio? Eppure così (finalmente) mi sento, in questo momento della vita. E, come disse l'innamorata di "Ufficiale e gentiluomo"

«Se davvero vuoi diventare un ufficiale devi credere che lo diventerai, devi crederci davvero»

E io lo credo.

mercoledì 14 luglio 2010

Luoghi e nonluoghi, rifugi e prigioni: un bell'articolo di Marc Augé

I nuovi confini dei nonluoghi

Alcuni anni fa, ho utilizzato il termine «nonluoghi» per designare quegli spazi della circolazione, del consumo e della comunicazione che si stanno diffondendo e moltiplicando su tutta la superficie del pianeta. Ai miei occhi, questi nonluoghi erano spazi della provvisorietà e del passaggio, spazi attraverso cui non si potevano decifrare né relazioni sociali, né storie condivise, né segni di appartenenza collettiva. In altre parole, erano tutto il contrario dei tradizionali villaggi africani che avevo studiato in precedenza e nei quali le regole di residenza, la divisione in metà o in quartieri, gli altari religiosi delimitavano lo spazio e permettevano di cogliere nelle loro linee essenziali le relazioni tra gli abitanti.

Questa definizione di nonluoghi ha però due limiti. Da una parte, è evidente che una qualche forma di legame sociale può emergere ovunque: i giovani che si incontrano regolarmente in un ipermercato, per esempio, possono fare di esso un punto di incontro e inventarsi così un luogo. Non esistono luoghi o nonluoghi in senso assoluto. Il luogo degli uni può essere il nonluogo degli altri e viceversa. Gli spazi virtuali di comunicazione, poi, permettendo agli individui di scambiarsi messaggi, di mettersi in contatto tra loro, non possono facilmente essere definiti nonluoghi. Si tratta, in questo caso, di interrogarsi sulla natura della relazione che si stabilisce tramite determinate tecnologie della comunicazione per chiedersi anche come sia possibile che in questo mondo definito «relazionale» gli individui si sentano così soli.

Le immagini che ci vengono presentate danno una prima risposta a questa domanda, o più precisamente permettono di riformularla perché gettano una luce cruda sulla faccia nascosta della globalizzazione e, allo stesso tempo, mettono in evidenza un’altra dimensione dei nonluoghi. Quello che ci permettono di scoprire, infatti, non è l’anonimato di quegli spazi in cui si passa soltanto, la solitudine provvisoria del viaggiatore in transito o la libertà alienata del consumatore medio nei reparti dell’ipermercato, ma lo scontro tra due mondi ognuno dei quali si presenta come il negativo dell’altro. Coloro che fuggono davanti alla miseria, alla fame o alla tirannia, alle violenze della natura e della Storia, e che si gettano a volte in mare mettendo in pericolo la propria stessa vita, vivono in una logica del tutto o del niente, del «si salvi chi può», e tagliano ogni legame con il luogo d’origine, anche se agiscono nella speranza di poter aiutare in seguito quelli che hanno lasciato a casa.

È il momento della fuga insensata. L’esercito disordinato dei sopravvissuti sbarca sulle spiagge dell’esilio già ingombre dei cadaveri che il mare ha rigettato: strano paradiso, quello che in genere, molto rapidamente, prende la forma di campi di internamento.
L’altro mondo, quello al quale vorrebbero accedere e che continua a sfuggirgli, non riescono mai a raggiungerlo. Resta un miraggio, anche per chi riesce a penetrarvi clandestinamente. Non c’è niente di più tragico del destino di questi individui presi in trappola tra due negazioni: quella dell’origine e quella del presente, ma condannati a sperare, tuttavia, o piuttosto a ripetere, per sfuggire al nonsenso totale. Finite, allora, o rinviate a più tardi, le sottili distinzioni tra nonluoghi empirici e nonluoghi teorici, le considerazioni sfumate sulle varie relazioni che si possono avere con spazi diversi.

Le immagini che abbiamo sotto gli occhi ci mostrano innanzitutto individui che hanno perduto il loro luogo senza averne trovato un altro, individui doppiamente assegnati ai nonluoghi, in un certo senso. Spesso gli africani in fuga strappano i loro documenti di identità per evitare, una volta presi, di essere rimandati nel Paese d’origine: come non-persone hanno una maggiore possibilità di aggrapparsi un po’ più a lungo ai nonluoghi sui quali sono andati ad arenarsi. Del resto, sono proprio due mondi quelli che si scontrano: un mondo da cui bisogna fuggire per sopravvivere e un mondo che fa di tutto per respingere questa invasione della miseria, erige muri per contenerne gli assalti, fa pattugliare le frontiere dalle forze dell’ordine, raffina i metodi di indagine e apre campi per parcheggiarvi coloro che sono riusciti, malgrado tutto, ad arrivare.

Da un lato, quindi, i nonluoghi dell’abbondanza (aeroporti, autostrade, supermercati). Dall’altro, i nonluoghi della miseria: rifugio, a volte (quando accolgono, come accade in Africa, le masse in fuga a causa dei massacri e della repressione), e prigione (quando vi si rinchiudono quelli che hanno infine messo piede sulla terra promessa). Sempre, contemporaneamente, rifugio e prigione, oggetti, allo stesso tempo, del controllo poliziesco e dell’assistenza umanitaria.

Che cos’hanno in comune questi due tipi di nonluoghi? Più di quanto non sembri, forse. Perché è evidentemente proprio nei punti di contatto e di passaggio da un mondo all’altro — gli aeroporti, i grandi assi stradali, i porti — che si mettono in atto meccanismi di difesa. Inoltre, sono i mezzi di trasporto più caratteristici della nostra epoca (gli aerei e i loro carrelli d’atterraggio, i grossi camion e i loro container) a fornire al clandestino un veicolo e un nascondiglio.

Gli aeroporti hanno le loro sale di detenzione e gli espulsi vengono caricati su aerei di linea o su charter. I punti di passaggio hanno un’importanza strategica. È là che si dispiegano i mezzi di sorveglianza più perfezionati, ma è sempre là, nel punto di congiunzione tra i due mondi, che passano i turisti. Attratti dall’esotismo, dalla sabbia, dal sole o dal sesso, vi si affollano per recarsi nei Paesi che i migranti cercano di lasciare.
Questi due movimenti che vanno in senso inverso (il turismo e la migrazione) si incrociano e si ignorano. È inevitabile pensare, vedendo una coppia occidentale distesa sotto l’ombrellone, intenta a rilassarsi contemplando il mare a due passi da un cadavere arenato sulla spiaggia, che l’immagine è emblematica della nostra epoca.

Marc Augé, Corriere della Sera, 12 luglio 2010
Thanks to Eddyburg

martedì 13 luglio 2010

La sicurezza di Obama e quella di Bush

Se è possibile cambiare lessico, è possibile cambiare tutto - ma non dimentichiamo che si tratta sempre della stessa lingua. Mi è venuta in mente la sensazione che ho provato quando è stato eletto Bush, e quella, del tutto simile ma più vicina e cocente, alle elezioni di Berlusconi.
Se Bush non è più al governo allora forse....
E resto convinta che lamentarsi non serva a niente.


Data di pubblicazione: 01.06.2010

E' certamente legittimo leggere il documento di Barack Obama sulla strategia di sicurezza nazionale americana come un'operazione di «cosmesi linguistica» priva di qualsiasi discontinuità reale rispetto all'era Bush, come autorevolmente ha fatto venerdì scorso su questo giornale Tariq Ali misurandola sulla parabola della guerra in Afghanistan e sulla questione israelo-palestinese. Ma è legittimo anche, spero, riconoscere al linguaggio una valenza non meramente cosmetica bensì performativa, e riconoscere nell'impianto culturale del testo di Obama una svolta di 180 gradi rispetto a quello omologo di Bush jr del 20 settembre 2002. Si sa del resto che rispetto all'operato di Obama sempre ci si divide fra il disincanto chi sta agli atti e l'incantamento di chi punta sulla sua visione del mondo; non stupisce dunque che sia così anche stavolta. Ma leggendo in sequenza i due testi, quello di George W. Bush e questo, è davvero difficile non rovesciare la diagnosi della continuità reale che permane sotto il maquillage di una discontinuità apparente in quella, opposta, di una discontinuità radicale che si afferma malgrado la continuità della guerra.

Fra i due testi, del resto, corre meno di un decennio che però vale un'epoca: la discontinuità è nei fatti prima che nelle idee, e l'ha scavata la storia prima che la politica. Il documento di George W.Bush uscì esattamente un anno dopo l'attacco alle Torri gemelle, quando già tutti gli osservatori e i pensatori più avvertiti del pianeta avevano saputo leggere in quell'evento il sintomo della configurazione del mondo globale e delle sue inedite ed esplosive contraddizioni; eppure, a distanza di dodici anni dalla caduta del Muro di Berlino, Bush poteva ancora consentirsi di giocare tutto l'armamentario ideologico della Guerra fredda e tutto il trionfalismo occidentale sulla fine della Guerra fredda per riconfermare arrogantemente la volontà di potenza degli Stati uniti come destino, un destino attaccato ma non intaccato dall'«incidente» dell'11 settembre.

Per Bush, l'ordine mondiale era ancora una creatura nelle mani della potenza americana, uscita trionfalmente vincente dal confronto col Nemico comunista; per ripristinare l'ordine dopo l'attacco di Al Quaeda, bastava ripristinare l'immaginario del Nemico, trasferendolo dal comunismo all'Islam e agli «stati canaglia» e spostando la linea del fronte dalla cortina di ferro al Medioriente. Di nuovo, e terribile, ci mise la dottrina della guerra preventiva e infinita, la prassi della sfigurazione della Costituzione all'interno e del diritto internazionale all'estero, la tortura, Guantanamo, le corti speciali e quant'altro. Era un'analisi completamente sbagliata, in primo luogo perché il nuovo nemico terrorista era reticolare e non statuale, virale e non territoriale, nasceva dall'interno e non dall'esterno dell'Occidente e dei suoi misfatti, e la trasposizione su di esso del vecchio Nemico della Guerra fredda era puramente fantasmatica; ma quell'analisi ebbe la sua nefasta presa sull'immaginario americano e mondiale, e diventò la base della teoria e della pratica dello «scontro di civiltà», corredato di un vessillo - l'esportazione con la forza all'estero dei valori democratici traditi all'interno - e di un corollario - il neoliberismo come braccio economico della guerra all'estero e della de-costituzionalizzazione all'interno.

Niente di questa devastante armatura ideologica sopravvive nel testo di Obama. Non la certezza della potenza come destino, ormai ridimensionata dall'emersione nel frattempo avvenuta delle potenze mondiali nuove, e sostituita dalla consapevolezza che la leadership americana va rifondata in un tempo «di transizione» e di cambiamemnto globale. Non l'arroganza neoliberista, nel frattempo sconfitta dalla «più grande recessione con cui ci siamo trovati a confrontarci dalla Grande depressione in poi». Non l'analisi del nemico, che non è più l'Islam ma «uno specifico network terrorista», e non ha più il volto fantasmatico dell'Altro ma «è tra noi, qui a casa». Non la dottrina nefasta della guerra preventiva e infinita, sostituita da quella della «guerra necessaria e giusta», nefasta anch'essa ma quantomeno meno dilagante, e consapevole che dalle ultime guerre l'America è stata «indurita» e indebolita.

Non lo sfregio della Costituzione, cui viene contrapposto il richiamo imperativo alla legalità. Non la crociata dell'esportazione della democrazia, perché «la nostra leadership morale deve basarsi sulla forza dell'esempio e non sull'imposizione del nostro sistema ad altri popoli». Non lo schema dello scontro di civiltà, perché la forza dell'America sta e resta nella miscela di colori e di culture che l'ha fatta crescere. E nemmeno, infine, quell'idea esclusivamente militare della sicurezza che faceva del testo di Bush la bandiera oscurantista di un paese assediato e senza speranza: per Obama, «sicurezza» vuol dire anche crescita sostenibile, investimento sul futuro, sulla conoscenza e sulle giovani generazioni, il nemico non è fatto solo di terroristi ma anche di armi atomiche, rischi ambientali, trappole tecnologiche. E' vero, la guerra in Afghanistan resta, e tanto più dopo i fatti di ieri il Medioriente si ripresenta come l'«hic Rhodus» di Obama. Ma non è poco quello che è cambiato.

da Dominijanni, su il Manifesto, 1° giugno 2010 - preso da qui

Osservazioni sull'umanità

Tocqueville, osservando le condizioni della società americana orientata alla democrazia ugualitaria, previde «una folla innumerevole di uomini simili e uguali, che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri, con cui soddisfare il proprio animo. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è come estraneo al destino degli altri: i suoi figli e i suoi amici più stretti formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, è vicino a loro, ma non li vede; li tocca, ma non li sente; vive solo in se stesso e per se stesso, e se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia patria. Al di sopra di costoro s´innalza un potere immenso e tutelare, che s´incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Assomiglierebbe al potere paterno, se, come questo, avesse per fine di preparare gli uomini all´età virile; ma al contrario, cerca soltanto di fissarli irrevocabilmente nell´infanzia» (La democrazia in America, 1840, libro II, parte IV, capitolo VI).
da Zagrebelsky, Gustavo, Quel che rende unico ogni individuo, La Repubblica, 27 marzo 2010


domenica 27 giugno 2010

Se dopo i 25…

Può succedere ancora che passati i ventitré o i venticinque anni, la ragazza che fino a ieri era un fiore, incominci improvvisamente ad appassire, diventi acida e nervosa. La madre accorta non tarda a "capire". Capisce cioè che quello che angustia la poverina è il fatto di non aver ancora trovato marito, e che è giunto il momento, per lei, di intervenire. Con estrema discrezione comincerà a darsi da fare: riaggancerà i rapporti con la signora X, che non sente da tanto tempo ma ha tre figli in gamba, tutti scapoli. Solleciterà il consiglio e l'aiuto dell'immancabile amica che "conosce tutti". Spronerà il marito a invitare a teatro il giovane ingegner Steppia che è povero, ma promette un brillante avvenire, o il signor Fernando che non è più di primo pelo, ma ha una vasta clientela e un appartamento arredato. Dal canto suo, il padre studierà la possibilità di mandare moglie e figlia per la stagione estiva a Viareggio o a Cortina, anziché, come al solito, dai nonni a Castelline in Chianti. E se da questo tramestio verrà fuori, com'è probabile, l'agognato fidanzato, il merito sarà tutto dei genitori.

Tratto da Donna Letizia, Il Saper Vivere, prima edizione 1960
appositamente adattato per l'occasione.

giovedì 17 giugno 2010

Direttamente dalla dispensa della zia Grazia…

Torta.. no.. Multistrato alle mele e cannella, volevo dire paprica.
(se volete saltare direttamente alla ricetta si trova in fondo al post)

Stasera si svuota la credenza!!
Bella parola, credenza, peccato che non ne esistano più. Insomma, eliminiamo le cose che stazionano tristemente in armadi/fruttiere/angoli reconditi da prima che l'estate cominciasse (e improvvisamente andasse via di nuovo),
olè!

Innanzitutto le mele, causa prima di questa decisione. Anziché il dolce alle briciole di biscotti (di cui vi parlerò presto), la mamma ha voluto fare una cosa che le aveva fatto la zia, sufficientemente semplice perché se la ricordasse.
Prendete quindi le mele incriminate, che di questa stagione fanno solo tristezza e sono molle.
Sbucciatele (sigh) e tagliatele a pezzi piuttosto piccoli: in una padella con lo zucchero, possibilmente grezzo. Lasciatele cuocere da sole, ne saranno felici.

Secondo passo: le uova. Hanno regalato anche a voi 18 uova tutte insieme? So di qualcuno a cui è successo. Per la cronaca viveva da sola.
Purtroppo non useremo per questo dolce 18 uova, ma solo tre tuorli.
Con queste tre sorelline preparate una crema molto liquida aggiungendo (dosi della nonna Venice) 3 cucchiai di farina e 3 cucchiai di zucchero.
Mescolare e scaldare.
Io ho usato lo zucchero non raffinato, che fa tanto bene al vostro colon quindi l'ho fatto scaldare un po' prima di aggiungere il latte. 3 bicchieri e mezzo di latte.
Fate cuocere dolcemente, possibilmente mescolando senza fermarsi mai. Ho detto mai!

Terzo passo: le Marie (ululati in sottofondo)
Spero per voi che non abbiate una sorella che ciclicamente rifornisce la casa di questi biscotti INSULSI. E scusate se uso le maiuscole. Nel latte si ammosciano o impattonano, nel tè si disintegrano, da sole fanno passare la voglia di vivere: come si mangiano le marie? Non a caso prendono il nome da una diva della mia religione preferita, che ama tanto farci soffrire inutilmente. Dice che aiuta.
Le Marie dunque. Che io mangio spalmate della marmellata al cioccolato della zia Maria, e Maria + Maria si annulla diventando una cosa appena accettabile. Le marie dunque. NON compratele apposta! Si riproducono! l'unica altra cosa decente che ci potete fare (oltre alla torta di briciole di biscotti) è un finto tiramisù alla frutta! Ne userete al massimo 2 pacchetti e mezzi, quindi 40 biscotti circa.

Infine, il limoncino. Noi ne abbiamo un resto di secoli e millenni, scampato a così tante razzie che è diventato trasparente e non si può bere più da solo.
Quando non lo usate per il dolce con le briciole dei biscotti, quindi, potete usarlo per imbevere (imbere?) le mefitiche marie, avendolo mescolato prima con acqua.

Uno strato di marie, lo spruzzate di limoncino+acqua, quindi ci spalmate le mele cotte, su cui avete spolverato della cannella NON, come ho fatto io, DELLA PAPRICA.
Il gusto potrebbe lievemente cambiare, e forse con la cannella è meglio. Potrebbbe essere molto interessante anche con lo zenzero grattato o a pezzettini.
Sopra le mele aggiungete la crema.
Quindi ripetete ad libitum. Oppure finché non finiscono gli ingredienti. Lasciate in frigo a rassodare per diverse ore, a occhio direi almeno almeno tre.

Riassumendo:
Prendete delle mele (io ne avevo 4+1 marcia), fatele cuocere in padella con diverse cucchiaiate di zucchero. Quando si sfanno aggiungete la cannella, moderatamente.
Nel frattempo preparate una crema liquida con 3 tuorli, 3 cucchiai rasi di farina e 3 di zucchero, mescolati, più 3 bicchieri e mezzo di latte. Potete aromatizzare con la scorza di limone.
Disponete le marie sul fondo di un recipiente quadrato, spruzzatele di acqua e limoncino mescolati, spalmatele con uno strato di mele non del tutto sfatte, quindi coprite con un po' di crema; ricominciate con i biscotti e continuate fino ad esaurimento.
Passare in frigo per almeno 4-5 ore.

mercoledì 16 giugno 2010

Fra un cupcake e una versione della Carmen...




«[...]
La crisi dell'impiego accademico, risultato di una grande espansione dell'educazione universitaria verificatasi fra la fine del XVI secolo e il principio del XVII, non era solo un fenomeno sociologico; aveva - o si riteneva avesse - anche implicazioni ideologiche.
Per esempio Thomas Hobbes imputò la responsabilità della rivolta contro Carlo I all'ambiente accademico, che insegnando la storia greca e romana aveva indotto il popolo ad ammirare il "glorioso nome della libertà" e di conseguenza a considerare la monarchia come una "tirannide". Il fulcro della ribellione è nelle università, scrive Hobbes:
È infatti cosa ben difficile per gli uomini (che hanno tutti un'opinione elevata del proprio ingegno), dopo aver anche acquisito la cultura dell'università, persuadersi d'esser privi d'una qualsiasi delle capacità necessarie per governare uno stato.



Mark H. Curtis trova esagerato il punto di vista di Hobbes. Sostiene invece che "le università erano pericolose [...] perché preparavano troppi uomini per troppo pochi posti di lavoro".


Al principio del XVII secolo nelle due università si laureavano più di quattrocento studenti ogni anno. Curtis calcola che ci fossero cento studenti in soprannumero rispetto ai posti vacanti nella Chiesa. Questo è solo un aspetto di un processo più generale in cui la mancanza di "opportunità per sfruttare appieno la loro preparazione e il loro ingegno" portava alla formazione di "un gruppo irriducibile di intellettuali alienati che, individualmente o collettivamente, creavano problemi in un'epoca di crescente insoddisfazione verso il regno degli Stuart"
[...]»
da Ian Watt, Miti dell'individualismo moderno, trad. it: Donzelli Editore, 1998, p. 33-4


Ricordo a tutti che a Carlo I è stata tagliata la testa, ma nessuno l'ha ricordato come un martire.


Cosa posso dire: Speriamo!



venerdì 4 giugno 2010

Sempre a proposito dei colori in città segnalo un muro che è stato colorato, o meglio artisticamente reinterpretato a Viareggio.
Qui le immagini del murales e le parole di Cristian Sonda sul suo lavoro. Lui è tenero, molto compreso nella parte - probabilmente a ragione.

il video è stato realizzato da Studio Sumatra, val la pena di passare dal loro sito un momento e guardare il video sull'augmented reality...

giovedì 3 giugno 2010

Le polemiche (o finte tali) sull'italiano mi hanno stufata. E già da mo'. Ma questa è veramente troppo grossa.

Mi è capitato di ascoltare il commento a due articoli sull'ennesima indagine dell'Accademia della Crusca a proposito della capacità di parlare in italiano fra le giovani generazioni.
Il giornalista (non riesco a ritrovare il nome, era radio3 in dicembre) ha introdotto prima un sensatissimo articolo di Segre (da notare la terribile impaginazione, se al Corriere hanno bisogno di un correttore di bozze -e ne hanno bisogno- mi faccio avanti), quindi un altro di Ceronetti.

Siccome il primo era troppo sensato e vagamente pericoloso per la sua intelligenza, il giornalista ha pensato bene di soffermarsi con ben altra attenzione sull'invettiva di Ceronetti, che non ha altro merito che l'uso accurato (ormai folkloristico) di una serie ben ordinata di termini aulici e complessi, più lunghi di tre sillabe. Come una serie folkloristica la voce narrante l'ha trattato, leggendone dei pezzi divertito (divertito da cosa poi?), inciampando sulle parole, sbagliando a volte persino l'intonazione della voce. E dire che fino a quel momento era andato benissimo, era quasi interessante. Il significato anacronistico dell'invettiva di Ceronetti non l'ha minimamente scalfito.

Il fatto che il "poeta filosofo scrittore giornalista traduttore drammaturgo teatrante marionettista" sembri vivere del tutto fuori dal mondo non lo sfiora nè lo preoccupa, sembra piuttosto contento di poter dire alla radio parole come antonomasia disperatamente infingimenti rammoliti sforacchiano deliberatamente ecc. Quante sillabe!
Ma questo ancora mi sconvolge poco. Anch'io ogni tanto mi sono dilettata con parole strane, accostate per il solo loro suono.

Quello che mi ha infastidito (e profondamente divertito) è l'inutile invettiva del poetafilosofoscrittoregiornalistatraduttoredrammaturgoteatrantemarionettista, nonchè figura di rilievo del mondo culturale italiano, che riconosce negli anglicismi, nei forestierismi la causa prima e principe della perdita di etica del nostro paese.

Gli anglicismi! Proprio come quando, nell'ottocento, i francesismi ci hanno invaso per via piemontese e parallelamente abbiamo assistito a una disfatta etico-politica di proporzioni memorabili (il Risorgimento): corsi e ricorsi storici.

L'inglese, "intollerabile servilismo" è presente sugli autobus: "Entrance-Exit", dove evidentemente la derivazione latina del termine non vale a salvare l'espressione. Per la sanità e il pudore pubblico bisognerà tentare di affondarla con ogni mezzo, al limite rifiutarsi di vederla (e se un turista tedesco non pronuncia la gl perfettamente: al muro! impiccagione per la più alta salvezza del patrio idioma).

Davvero divertente la lista con cui si chiude l'invettiva (ma vale la pena di leggere, ridendo disperati, l'intero articolo, se lo vogliamo chiamare così), un crescendo di ilarità: Ceronetti stigmatizza tutti i termini in cui le due lingue si accostano e si accompagnano, mi stupisco quasi che non proponga una traduzione per ciascuno, come faceva Lui.
  • under ventuno;
  • over settanta;
  • essere trendy,
  • essere sexy;
  • tre-dieci mille fiction;
  • ce l' ho sul despley (sic: evidentemente non usare l'inglese implica anche non conoscerne l'ortografia);
  • preso al discount;
  • fare shopping;
  • fare zapping;
  • transgender;
  • lavoro in un call center;
  • c' è un black out;
  • riunito lo staff;
  • è stato un flop;
  • il cuore in tilt
Mi fermo qui, ma la lista continua. Non azzardo traduzioni, volerei troppo in alto. Anzi, scappo ad uplodare sul blog l'ultimo post di questa season. Kisses

martedì 1 giugno 2010

contro il grigiore della vita moderna... Let's colour!

E finalmente gli anni 2000(10?) si fanno sentire: contro la terribile architettura anni 80-90 si parte alla riscossa con il colore, che nasce diretto dalle bandiere della pace dell'inizio del millennio. Senza pensare a quanto siano risicati questi tentativi di dare un colore diverso al mondo, prendiamo quello che viene, con pazienza.
Let's colour vuole colorare ciò che è grigio, io aggiungo che qualche bella pianta ricadente da quei muri lisci da Semperfresh (chewing gum da maggioranza silenziosa) ci starebbe proprio bene!



Alla cinnamon, a tutti i compagni caduti e ai colori che invaderanno il mondo. Speriamo con vernici non troppo inquinanti.


lunedì 24 maggio 2010

Google TV e Rai


E' incredibile come gli americani sappiamo presentare meglio le loro idee.
Stavo guardando lo spot (pardon, il "comunicato informativo sulle nuove tecnologie"!) di Google TV e mi è venuto in mente l'hub che è stato presentato all'IA summit qualche tempo fa (qui il paper): un sistema attraverso il quale si potesse raggiungere qualsiasi contenuto, che reagisse in modo interattivo alle richieste del cliente, con un'interfaccia umana a guidare le scelte del utente-consumatore. Non dico che sia la stessa cosa, ma poco ci manca. Volete un film romantico che parli di lupi, magari in costume? i primi due risultati di google (leggi: gogol) potrebbero andare (e giuro che ho scelto tre elementi a caso!). Applichiamolo a una scorta enorme di film documentari e filmati come quella prospettata da Google TV (o dal progetto Hub RAI) ed ecco fatto.

(Tralascio naturalmente tutta la questione dei diritti, delle strutture che tramandano e conservano i materiali. Così, di passaggio mi viene da pensare che renderebbe più evidente l'assurdità di certi divieti.)


(l'immagine viene da qui)

E' chiaro che questo non risolve la questione del "non so cosa vedere stasera" con graziosa signorina che ti dà indicazioni (e ringrazio infinitamente Chiara Ferrigno per averci risparmiato la graziosa signorina), ma mi pare che il problema non sia radicale e possa essere risolto con un buon architetto dell'informazione :) e un'interfaccia ben fatta, magari adattabile.

(l'immagine courtesy of qui)

domenica 23 maggio 2010

Vandana Shiva a Che tempo che fa: adesso!

In questo momento da rai tre ci sorride il faccione di Vandana Shiva, una zia siciliana con un grosso punto rosso in fronte che parla di Terra Madre, che sembra una reificazione della Terra Madre.
Lampi dagli occhi e positività.


Ex-post: brevissimo questo intervento, ma non ha quasi preso fiato. Temi radicali e per contro l'incapacità di gestirli della televisione italiana. Basta arrivare a guardare la pubblicità che segue.
Per la cronaca stasera la Gabanelli parla di informazione sul cibo...

sabato 22 maggio 2010

Per tutti gli amanti del colore

e i grafici alle prime armi come me (sarà vero?!?), ma soprattutto per gli amanti del colore:
Color Scheme Designer!
Oppure, come consigliato da Steppia, kuler. Che forse lascia più libertà per giocare, ma è proprietario.

... saranno usati presto per migliorare la situazione qua sopra e qui intorno, hopefully :)


ps: c'è anche un contrast analyser ma purtroppo è solo per windows. Sono molto offesa.

venerdì 21 maggio 2010

Titolo sui titoli interessanti per voyeurs

Lascia perdere il titolo delirante: qui c'è un articolo interessante sui titoli, appunto, e sul lavoro dei SEO che cercano di renderli appetibili per i motori di ricerca (inguaribili voyeurs).

Naturalmente il mio tentativo di titolo usa spregiudicatamente termini sexy. Per controbilanciare ho usato due parole più lunghe di 18 caratteri, leggermente desuete.

martedì 18 maggio 2010

TinEye, finalmente?

Magari arrivo in ritardo, ma ancora non ho sentito parlare abbastanza di TinEye, il primo motore di ricerca visuale: tu metti dentro un'immagine, lui ti dice dove la puoi ritrovare nel web.
Mi sembra una cosa fantastica ma per quello che ho potuto provare funziona pochino.

L'ho provato con una mia foto e un disegno che mi rappresenta (quello che sta qui a destra, in basso), ma non l'ha trovati. La mia foto, però, è su LinkedIn e FB, canali che forse non sono indicizzati...
Nemmeno le foto e immagini sul sito di Linda, magari un po' più visitato del mio.
Ho provato con un'immagine più comune e il risultato non è eccitante (manca la copia esatta dell'immagine, presente su idranet.


Allora ho provato con un blogger americano e ha recuperato almeno un risultato...
L'impressione è che funzioni meglio con i disegni, avevo provato con un paio trovati sul blog di Daniele Luttazzi e li aveva trovati: su grossi repository di immagini, però.

In definitiva un mezza delusione, mi sa che ci tocca aspettare che il servizio migliori.



ps. a proposito di servizi, mi sa che sto per migrare per la terza volta su un'altra piattaforma di blogging: le immagini che carico qui sono tremende!!!

giovedì 13 maggio 2010

Piccole divagazioni sugli e-book

Io non capisco i denigratori degli e-book. Cioè: posso capire il vecchio scrittore che quando ha cominciato batteva a macchina, posso capire la vecchietta cecata che non si ritrova con le interfacce touch (e non sa nemmeno cosa sia un'interfaccia), posso capire perfino me stessa e il mio sano desiderio di non stare rintanata all'ombra ma leggere in pieno sole.
Ma non mi sembra che questo implichi denigrare gli e-book e relative piattaforme in assoluto. Anch'io sono cresciuta con il profumo dei libri, con la concretezza delle pagine che ti si sfanno fra le mani, di quelli prestati e mai rivisti, dimenticati sugli autobus, stazionanti sotto un tavolo a fare da fermo. Eppure come non riconoscere la maggiore comodità, per uno studioso/studente soprattutto, della ricerca testuale? La maggiore leggerezza di uno strumentino (possibilmente un computer) anziché i soliti chili di libri?
Siamo d'accordo che leggere a schermo sia più faticoso, per capire veramente le cose io stessa stampo su carta, sottolineo e pasticcio con le matite, ma è un mio problema, una mia arretratezza: stiamo passando a un modo diverso di leggere, conoscere e capire. Il passaggio è epocale e spesso mi stupisco di come persone che ritengo illuminate o almeno al passo coi tempi sembrino non rendersene conto (l'esempio scatenante è un dettaglio in questo articolo di Moresco di qualche tempo fa).
Si fa un gran parlare di quanto internet cambi le nostre vite, ma poi quando ci scontriamo con gli effetti reali di questi cambiamenti improvvisamente rimpiangiamo il ciclostile: se non altro faceva venire i muscoli!
Leggere a testo e leggere a schermo implica capacità diverse, un diverso tipo di concentrazione e soprattutto una relazione diversa col testo che senza dubbio le prossime generazioni avranno, almeno quelli che avranno la possibilità di giocare con un computer fin da piccoli. Mia mamma ha impiegato più di un anno per (decidersi a)imparare a usare il T9, mentre non so di nessun meno-che-teen ager che abbia dovuto farsi insegnare da qualcuno.
In ultimo ho la sensazione che sia una preoccupazione innanzitutto italiana, dovuta alla nostra costantemente lamentata arretratezza. Che noia. Ma non credo che Foer, che pure mi dicono scriva cose molto belle, si sia preoccupato che qualcuno potesse non scarrozzarsi in giro le sue 300 e passa pagine, purché leggesse, capisse (e aderisse al) suo pensiero.

In tutto questo, però, io odio i kindle, odio le cornici digitali e odio le console di gioco, in una parola (anzi due) le piattaforme monodirezionali. Per questo non so ancora se odio l'ipad.

martedì 11 maggio 2010

Libri: “Ricette immorali” di Manuel Vázquez Montalbán

(inizialmente pubblicato su idranet)

Cosa fanno insieme uno dei più contestati autori “alti” della letteratura italiana e il popolarissimo autore dei romanzi sull’inquisitore Eymerich? Un libretto, smilzo ma prezioso, su un tema piuttosto fuori moda.

Sono passati quasi due secoli da quel periodo complesso e turbolento che vide l’Italia formarsi, prima come obiettivo politico realizzabile, poi come precaria conquista militare: il Risorgimento. Un momento di lotte violente e sanguinose di cui nella coscienza comune restano soltanto le fredde statue equestri e qualche targa agli angoli delle strade.

Eppure, questo il punto da cui partono i due scrittori, il risorgimento, privato della maiuscola e della patina celebrativa, potrebbe essere un materiale incredibile per una narrazione avventurosa, sanguinosa, moderna. Un soggetto potenzialmente esplosivo per il cinema, perfino per lo splatter o il cinema di guerra, che potrebbero nutrirsi degli eccidi, delle violenze che si videro in quei giorni e che oggi resistono in poche testimonianze dell’epoca, difficili da trovare, o dietro alle perifrasi dei libri di storia.

Moresco ed Evangelisti, quindi, accoppiano questi due racconti, ispirati a due diversi momenti del processo risorgimentale, e che riflettono incredibilmente bene le anime dei due scrittori.

Evangelisti apre con le ultime ore della Repubblica Romana del 1949: un giovane soldato decide di non seguire il gruppo dei mazziniani e le variegate truppe che, dopo aver difeso strenuamente la città, cedono il passo ai francesi e si allontanano di notte, in cerca di miglior fortuna. È una carrellata di immagini crudeli, di ritratti delle diverse anime che componevano la grande città e il movimento rivoluzionario.

Il racconto di Moresco, invece, aspira a raccogliere in una catena analogica eventi, concetti e immagini accomunati dalla medesima spinta rivoluzionaria, dalla forza violenta e rigenerante che la caratterizza. Raccoglie insieme il Nabucco in una rappresentazione contemporanea ma scimmiesca, Leopardi e la Batracomiomachia, Pisacane e la sua impresa fallimentare, un set porno, l’infuriare della battaglia durante le Cinque giornate di Milano, l’amore fra due giovani e un misterioso quanto terrificante bombardamento iper-tecnologico.

Più che un racconto è una sceneggiatura, dettagliata negli improvvisi cambi di scena e nell’impetuoso susseguirsi di musiche e silenzi. Le immagini ci scorrono di fronte, terribili o delicate, in un crescendo che culmina nel finale e che è impossibile interrompere.

I due testi si parlano si fronteggiano e si accompagnano quasi armoniosamente, illuminano sprazzi di storia patria davvero vitale e vissuta, finalmente viva e rigenerante.

.

Controinsurrezioni

Antonio Moresco e Valerio Evangelisti

Mondadori, 2008

.

“Solo gli scrittori potrebbero rianimare il Risorgimento, e farlo uscire dal sacello, simile alla ghiacciaia di un frigorifero, in cui è rinchiuso. Conservato bene, però freddo freddo.”

Libri: Controinsurrezioni di Valerio Evangelisti e Antonio Moresco

(inizialmente pubblicato su idranet)

Cosa fanno insieme uno dei più contestati autori “alti” della letteratura italiana e il popolarissimo autore dei romanzi sull’inquisitore Eymerich? Un libretto, smilzo ma prezioso, su un tema piuttosto fuori moda.

Sono passati quasi due secoli da quel periodo complesso e turbolento che vide l’Italia formarsi, prima come obiettivo politico realizzabile, poi come precaria conquista militare: il Risorgimento. Un momento di lotte violente e sanguinose di cui nella coscienza comune restano soltanto le fredde statue equestri e qualche targa agli angoli delle strade.

Eppure, questo il punto da cui partono i due scrittori, il risorgimento, privato della maiuscola e della patina celebrativa, potrebbe essere un materiale incredibile per una narrazione avventurosa, sanguinosa, moderna. Un soggetto potenzialmente esplosivo per il cinema, perfino per lo splatter o il cinema di guerra, che potrebbero nutrirsi degli eccidi, delle violenze che si videro in quei giorni e che oggi resistono in poche testimonianze dell’epoca, difficili da trovare, o dietro alle perifrasi dei libri di storia.

Moresco ed Evangelisti, quindi, accoppiano questi due racconti, ispirati a due diversi momenti del processo risorgimentale, e che riflettono incredibilmente bene le anime dei due scrittori.

Evangelisti apre con le ultime ore della Repubblica Romana del 1949: un giovane soldato decide di non seguire il gruppo dei mazziniani e le variegate truppe che, dopo aver difeso strenuamente la città, cedono il passo ai francesi e si allontanano di notte, in cerca di miglior fortuna. È una carrellata di immagini crudeli, di ritratti delle diverse anime che componevano la grande città e il movimento rivoluzionario.

Il racconto di Moresco, invece, aspira a raccogliere in una catena analogica eventi, concetti e immagini accomunati dalla medesima spinta rivoluzionaria, dalla forza violenta e rigenerante che la caratterizza. Raccoglie insieme il Nabucco in una rappresentazione contemporanea ma scimmiesca, Leopardi e la Batracomiomachia, Pisacane e la sua impresa fallimentare, un set porno, l’infuriare della battaglia durante le Cinque giornate di Milano, l’amore fra due giovani e un misterioso quanto terrificante bombardamento iper-tecnologico.

Più che un racconto è una sceneggiatura, dettagliata negli improvvisi cambi di scena e nell’impetuoso susseguirsi di musiche e silenzi. Le immagini ci scorrono di fronte, terribili o delicate, in un crescendo che culmina nel finale e che è impossibile interrompere.

I due testi si parlano si fronteggiano e si accompagnano quasi armoniosamente, illuminano sprazzi di storia patria davvero vitale e vissuta, finalmente viva e rigenerante.

.
Controinsurrezioni

Antonio Moresco e Valerio Evangelisti

Mondadori, 2008

.

“Solo gli scrittori potrebbero rianimare il Risorgimento, e farlo uscire dal sacello, simile alla ghiacciaia di un frigorifero, in cui è rinchiuso. Conservato bene, però freddo freddo.”

Libri: La verità, vi prego, sull'amore di W. H. Auden

(inizialmente pubblicato su idranet)
Senza scivolare nella banalità, in poche semplici ballate Auden ci svela la piccolezza e l'immensità dell'amore.
Attraverso un inglese ricco di musica (alcuni di questi testi sono stati scritti per essere musicati e cantati) Auden racconta la verità dell'amore: l'amore umano, l'amore felice ma anche l'amore istintivo e così facile della Natura, degli animali, l'amore atteso e l'amore infranto. Il tempo, compagno inevitabile di questo sentimento, fa capolino e cerca di distruggerlo, lo minaccia paurosamente – ma forse non vince, se è vero che la raccolta termina con Funeral Blues, il Blues in memoria reso celebre dal film Quattro matrimoni e un funerale, in cui si consacra un amore che dura oltre la morte.
Auden nasce a York, nel cuore dell'Inghilterra, nel 1907, ma durante la sua vita viaggia molto: per esempio vive per un anno in Germania, è in Spagna durante la Guerra Civile, visita il Giappone in guerra con la Cina ma fa anche lunghi soggiorni estivi in Italia, a Ischia. Tutte queste esperienze, come disse lui stesso, influenzarono profondamente la sua produzione e le sue tematiche, ma anche nelle poche poesie di questo libro possiamo ritrovare quella sottile ironia, quel malinconico sorriso che è tanto facile ritrovare negli scrittori inglesi.
Qualsiasi parola ulteriore renderebbe banale il contenuto di questa piccola raccolta, curata dall'esecutore testamentario di Auden e accuratamente assortita, per cui è meglio rimandare semplicemente alla lettura.

Wystan Hugh Auden
La verità, vi prego, sull'amore
Adelphi 2006

Libri: "La grande foresta" di William Faulkner

(inizialmente pubblicato su idranet)

In un'America inedita e selvaggia l'uomo combatte ancora una lotta alla pari con gli animali, è ancora parte della Grande Foresta: Faulkner ci mostra il Mississippi e gli americani come non siamo più abituati a vederli.

La grande foresta è una raccolta di racconti che si struttura in un'originale forma quasi romanzesca e che ha come tema fondamentale il rapporto fra l'essere umano e la Natura nel senso più concreto del termine. Le battute di caccia che stimolano e animano il racconto sembrano un pretesto per raccontare la foresta e la sua solenne immensità, la piccolezza dell'uomo e lo scontro (ma anche la condivisione) che lo lega agli animali.

È una dimensione lontana, quasi arcaica, quella in cui Faulkner ci trasporta, abitata dagli odori e dai rumori sottili della selvaggina nel bosco, dalle privazioni a cui gli uomini si sottopongono due settimane all'anno pur di godere ancora dello spazio primitivo e incontaminato della foresta. Ma come scorrono le pagine così scorre il tempo e la foresta prima piano, poi sempre più velocemente, si ritira, rimpicciolisce ad opera dell'uomo e degli incombenti campi di cotone. Alla fine del libro l'avanzamento del progresso si fa vertiginoso e col restringersi dello spazio, della potenza della grande foresta, sembra anche affievolirsi la capacità dell'uomo di relazionarsi con essa, di rispettarla e sentirsi parte di essa: gli ultimi cacciatori, nipoti e pronipoti di quelli raccontati all'inizio del libro, non comprendono il rispetto per gli animali, i longevi abitatori della selva, non sanno perché cacciano, non riconoscono ogni angolo del bosco come luogo che, in parte, gli appartiene.

Big Woods ha il potere di riportare il lettore in uno spazio che è insieme fuori del tempo e in un momento storico ben preciso, profondamente radicato nella società americana eppure, in qualche modo, appartenente ad ogni essere umano.

William Faulkner

La grande foresta

(Adelphi, 2009)

Libri: "Cassandra" di Christa Wolf

(inizialmente pubblicato su idranet)

Un viaggio straordinario nel mito greco: Cassandra, la mistica preveggente, rinasce in questo bellissimo libro di Christa Wolf.


Chi ha detto che i grandi cantori omerici non esistono più? La voce potente di Christa Wolf sale da queste pagine a raccontare la vita della principessa preveggente, figlia di Priamo ed Ecuba, prima e dopo la caduta della sua città, Troia.

Il libro si apre di fronte alle mura di Micene: una voce ricorda che Cassandra ha attraversato proprio quella porta, un tempo; evocata da quei sassi, ora sbriciolati dai secoli, emerge quindi la voce della principessa chiaroveggente, ormai schiava di Agamennone, che presagisce la sua fine imminente.

Il racconto si snoda fra i ricordi di Cassandra, recenti e lontani, e ne ripercorre l'esistenza straordinaria: il sacerdozio e il dono di Apollo, il complicato rapporto con Enea, la guerra a Troia.

Christa Wolf crea in Cassandra un personaggio straordinario, complesso, estremamente moderno; si muove fra il palazzo reale e il tempio, entra in contatto con le misteriose sacerdotesse di Cibele, che trasmettono un culto antichissimo; comprende le dure necessità del governo, prevede l'arrivo della guerra e della distruzione con dolorosa razionalità. Con la voce di Cassandra Christa Wolf riesce a riflettere senza enfasi e con profondità sul ruolo della donna, sugli intrecci e le necessità del potere politico, del potere economico e di quello religioso. Attraverso il personaggio mitico queste riflessioni si concretizzano, quasi si incarnano in personaggi per niente stilizzati come il padre Priamo e sua moglie, la regina Ecuba, il sacerdote Piritoo e l'amato Enea.

Uscito in Germania nel 1983, edito in Italia a partire dal 1987 Cassandra è un libro intenso, complesso ma sostenuto da un linguaggio puro e forte, quasi un classico.


Christa Wolf

Cassandra

E/O, 1990

Libri: "Il Canto del diavolo" di Walter Siti

Il resoconto di un viaggio, un tuffo nella modernità e nei suoi controsensi: i sette Emirati e un vecchio scrittore.

Gli Emirati arabi nel loro splendore e nella loro precaria bellezza occupano la maggior parte dell'ultimo libro di Walter Siti: “questo è l'unico Paese dove i plastici sono esattamente identici alla loro realizzazione – sia per la perfezione con cui sono eseguiti, sia per un'impalpabile carenza nella realtà: non so, quelle impercettibili sporcature provocate dall'esistere, i disordini dell'uso”.

Questo è forse il filo rosso che procede con il libro: tutto è nuovo negli Emirati Arabi, tutto è grande è bello ma è anche, in qualche modo, vuoto, inutilizzato, privo dei segni dell'umanità. Contemporaneamente si sente il fluire della vita e dell'operosità di un gran numero di immigrati dei paesi vicini (la maggior parte della popolazione) che passano da queste grandi e nuove città per lavorare e poter ritornare in patria arricchiti.

Un'atmosfera calda e sospesa accompagna il viaggio di Siti in questo paese, che è anche l'atmosfera del movimento parossistico in attesa della fine del petrolio o della crisi definitiva – e parallelamente, in uno strano controcanto, si muovono piccole storie che accompagnano il racconto, e soprattutto le osservazioni dello scrittore su se stesso, sulla sua incipiente ma già mal sopportata vecchiaia, sul suo corpo e sull'amore.Intorno vediamo la sabbia del deserto sconfitta dal cemento e da poche, stentate palme, un mare “che si ostina a non essere azzurro” e intuiamo il petrolio che ha reso questo recentissimo sogno possibile.

Walter Siti si muove fra queste costruzioni con il disagio di un europeo nutrito di una cultura millenaria e abituato a muoversi a piedi: negli emirati la passeggiata domenicale è prevista nei centri commerciali o al limite in macchina; anche la cultura è in via di costruzione e le nuovissime generazioni mescolano know how americano, istituzioni europee e tradizioni arabe.

Qui tutto è nel momento della sua nascita, plastici e ruspe sono gli oggetti che più spesso decorano il paesaggio; tutto è nuovo, tutto è una promessa: i visitatori vanno a vedere i cantieri delle straordinarie bellezze che verranno.

Un libro (e un paese) da scoprire per conoscere meglio noi stessi e la nostra cultura, di cui gli Emirati sono il frutto ancora acerbo.
(Rizzoli, 2009, pp. 205, € 16,50)
Già pubblicato su Idranet il 10/12/2009

lunedì 1 febbraio 2010

Cavalieri e fanti

[...]
Se aveste mai dormito con un gatto
o con un cane adagiato sopra il grembo,
ora sapreste che la metamorfosi è possibile -
che uomo e gatto e cane sono
entità volatili e cangianti: nel sonno
condiviso scompaiono le stinte
gerarchie fra cavalieri e fanti.

Franco Marcoaldi, Animali in versi
Einaudi, 2006.