giovedì 29 luglio 2010

Lettera sul cammino di Santiago

In questi giorni in cui tanta gente è in giro col foulard al collo è bello leggere storie di cammino. Soprattutto da parte di gente che il fazzolettone non lo porta.
È bello anche leggere racconti scout, ma è sempre difficile per chi scrive tenere separate le tradizioni di un gruppo, di un reparto da quelle che sono effettivamente abitudini comuni, dilagate nella comunità (non è interessante pensare agli scout come una comunità?).

Per questo vi linko una lettera scritta dopo il cammino di Santiago da una persona che se è stata scout non lo dichiara, ma che sa trasmettere un certo senso del camminare, del perdersi per ritrovarsi.

Il senso della difficoltà che si può fare quotidiana e rendere piena l'esistenza. Sapere che puoi camminare sotto la pioggia, resistere agli elementi e ritrovarti poi, asciutto, e molto più te stesso.


martedì 27 luglio 2010

Il piccolo circo di Alexander Calder


Fra i miei amori recenti e viscerali campeggia ultimamente Calder. I suoi giochi di fil di ferro sono imprendibili con la macchina fotografica, credo che anche la videocamera sarebbe inutile. Forse una cinepresa, con i fotogrammi che saltano e il suo rumorino di fondo, indefinibile e, per noi digitali, un filo magico.

Calder, come Brancusi, mi chiama dal profondo, riconosco in loro una parte di me misteriosa ma innegabile.

Per questo ho amato questo articolo su Nazione Indiana ancora prima di rendermi conto che era proprio di lui, di Calder, che si stava parlando: di lui e del circo di fil di ferro costruito a Parigi nei meravigliosi anni 1926-7.

Fra l'altro, qualche giorno fa qualcuno mi chiedeva perché non mi piace Queneau: perché non è Calder, perché i suoi giochi non conoscono l'essenzialità di questi:



ps: mi scuso per l'orribile foto ma l'oggetto era troppo affascinante per non cercare di catturarlo, almeno nella memoria.
Conservato al Moma, fotografato il 25 marzo 2010.

lunedì 26 luglio 2010

Kubideh Kitchen



Credo che la cucina sia cultura molto più di quello che sembri. Forse ne è dimostrazione che quando si è davvero appassionati di qualcosa si cerca anche di mangiare alimenti in tema. Compreso quelli che bevono succhi di frutta (albicocche?) caldi d'estate dopo aver letto Il maestro e Margherita.

In tutte quelle situazioni in cui non è strettamente necessario per sopravvivere far entrare qualcosa dentro di noi non è un gesto innocuo, ma profondamente culturale e biologico insieme.
Lo sento adesso, mentre guardo mutare le reazioni del mio corpo alla scelta vegetariana, l'ho sentito con minore lucidità quando mi sono adattata alla cucina e al clima inglese, mi sforzo di coglierne i dettagli quando mi fanno da mangiare le persone a cui voglio bene.

Per questo mi sembra bellissima l'iniziativa della Kubideh Kitchen, a Pittsburgh: una piccola cucina che serve cibo da asporto proveniente da paesi in conflitto con gli Stati Uniti.
I paesi si alternano a rotazione, in questo momento la scelta cade sull'Iran e quindi, oltre al Kubideh, piatto tradizionale, si susseguono incontri e cene a tema, una delle quali in collegamento videochat con una cena parallela in Iran.

Anche il design non è male.
Peccato non poter farsi mandare un kubideh a casa!


giovedì 22 luglio 2010

Big Bang Big... Boom!

Blu è uno street artist italiano che voi tutti (tutti!) conoscete molto poco: MALE!
Mi piacciono un sacco le cose che fa, ho visto un pochino il suo sito con il blog e la produzione. Per il poco che ne so mi sembra che il suo modo di riempire gli spazi sia interessante, un uso del colore giustificato, sempre comunicativo. Una comunicazione semplice forse, ma comprensibile, appunto. Un pugno allo stomaco senza essere realistico.
Blu riempie gli spazi, fa vivere i vuoti e modifica i pieni, inverte le parti, gioca con le irregolarità della sua "tela".
Scorrendo i walls si vede la linea cambiare, farsi più decisa dal ma anche meno sofferente. Più meditata?
Avevo già visto questa fantastica facciata a Lisbona fatta con Os Gemeos e ora è uscito il video che metto qua sotto: mi ha fatto restare a bocca aperta come una bambina. Maggiori informazioni le trovate qui.


giovedì 15 luglio 2010

All'amata me stessa

Владимир Владимирович Маяковский, All'amato me stesso

Quattro. Pesanti come un colpo.
"A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio".
Ma uno come me dove potrà ficcarsi?

Dove mi si è apprestata una tana?
S'io fossi piccolo come il grande oceano,
mi leverei sulla punta dei piedi delle onde con l'alta marea,
accarezzando la luna.

Dove trovare un'amata uguale a me?
Angusto sarebbe il cielo per contenerla!

O s'io fossi povero come un miliardario.. Che cos'è il denaro per l'anima?
Un ladro insaziabile s'annida in essa:
all'orda sfrenata di tutti i miei desideri
non basta l'oro di tutte le Californie!

S'io fossi balbuziente come Dante o Petrarca...
Accendere l'anima per una sola, ordinarle coi versi...
Struggersi in cenere.
E le parole e il mio amore sarebbero un arco di trionfo:
pomposamente senza lasciar traccia vi passerebbero sotto
le amanti di tutti i secoli.

O s'io fossi silenzioso, umil tuono... Gemerei stringendo
con un brivido l'intrepido eremo della terra...
Seguiterò a squarciagola con la mia voce immensa.

Le comete torceranno le braccia fiammeggianti,
gettandosi a capofitto dalla malinconia.

Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti
s'io fossi appannato come il sole...

Che bisogno ho io d'abbeverare col mio splendore
il grembo dimagrato della terra?

Passerò trascinando il mio enorme amore
in quale notte delirante e malaticcia?

Da quali Golia fui concepito
così grande,
e così inutile?

Teatro degli Orrori, Majakovskij

le quattro


pesanti come un colpo


a Cesare ciò ch'è di Cesare

e 
a Dio, ciò ch'è di Dio 


se io fossi piccolo


come il grande oceano


camminerei sulla punta dei piedi delle onde 
nell'alta marea 
sino a sfiorar la luna
 dove trovare un'amata 
uguale a me


angusto sarebbe il cielo 
per potermi contenere


se io fossi povero


come un miliardario 


che cos'è il denaro per l'anima 
è un ladro insaziabile 
si annida in essa
all'orda di tutti i miei più sfrenati desideri 
non basterebbe l'oro 
di tutte le Californie x2


se io potessi balbettare


come Dante, o Petrarca 
accendere l'anima per una sola 
ordinarle coi versi di bruciare
 le parole del mio amore sarebbero 
un arco di trionfo e 
pompose ed inutili 
vi passerebbero le amanti
 di tutti i secoli 
dei secoli e così sia

se io fossi silenzioso


come il tuono


gemerei, abbracciando in un tremito
il decrepito eremo terrestre 
urlerò con la mia voce immensa 
le comete torceranno le ali fiammeggianti
 e giù si getteranno, a capofitto 
per la malinconia


coi raggi degli occhi rosicchierei le notti


se io fossi buio


come il sole


ma perché ma perché mai dovrei io
 abbeverare 
con il mio splendore 
il ventre dimagrato 
della terra


morirò


e porterò via con me 
il mio amore immenso 
in quali notti
 quali malattie 
da quali Golia fui generato
 così grande 
così inutile



Smodato amor proprio? Eppure così (finalmente) mi sento, in questo momento della vita. E, come disse l'innamorata di "Ufficiale e gentiluomo"

«Se davvero vuoi diventare un ufficiale devi credere che lo diventerai, devi crederci davvero»

E io lo credo.

mercoledì 14 luglio 2010

Luoghi e nonluoghi, rifugi e prigioni: un bell'articolo di Marc Augé

I nuovi confini dei nonluoghi

Alcuni anni fa, ho utilizzato il termine «nonluoghi» per designare quegli spazi della circolazione, del consumo e della comunicazione che si stanno diffondendo e moltiplicando su tutta la superficie del pianeta. Ai miei occhi, questi nonluoghi erano spazi della provvisorietà e del passaggio, spazi attraverso cui non si potevano decifrare né relazioni sociali, né storie condivise, né segni di appartenenza collettiva. In altre parole, erano tutto il contrario dei tradizionali villaggi africani che avevo studiato in precedenza e nei quali le regole di residenza, la divisione in metà o in quartieri, gli altari religiosi delimitavano lo spazio e permettevano di cogliere nelle loro linee essenziali le relazioni tra gli abitanti.

Questa definizione di nonluoghi ha però due limiti. Da una parte, è evidente che una qualche forma di legame sociale può emergere ovunque: i giovani che si incontrano regolarmente in un ipermercato, per esempio, possono fare di esso un punto di incontro e inventarsi così un luogo. Non esistono luoghi o nonluoghi in senso assoluto. Il luogo degli uni può essere il nonluogo degli altri e viceversa. Gli spazi virtuali di comunicazione, poi, permettendo agli individui di scambiarsi messaggi, di mettersi in contatto tra loro, non possono facilmente essere definiti nonluoghi. Si tratta, in questo caso, di interrogarsi sulla natura della relazione che si stabilisce tramite determinate tecnologie della comunicazione per chiedersi anche come sia possibile che in questo mondo definito «relazionale» gli individui si sentano così soli.

Le immagini che ci vengono presentate danno una prima risposta a questa domanda, o più precisamente permettono di riformularla perché gettano una luce cruda sulla faccia nascosta della globalizzazione e, allo stesso tempo, mettono in evidenza un’altra dimensione dei nonluoghi. Quello che ci permettono di scoprire, infatti, non è l’anonimato di quegli spazi in cui si passa soltanto, la solitudine provvisoria del viaggiatore in transito o la libertà alienata del consumatore medio nei reparti dell’ipermercato, ma lo scontro tra due mondi ognuno dei quali si presenta come il negativo dell’altro. Coloro che fuggono davanti alla miseria, alla fame o alla tirannia, alle violenze della natura e della Storia, e che si gettano a volte in mare mettendo in pericolo la propria stessa vita, vivono in una logica del tutto o del niente, del «si salvi chi può», e tagliano ogni legame con il luogo d’origine, anche se agiscono nella speranza di poter aiutare in seguito quelli che hanno lasciato a casa.

È il momento della fuga insensata. L’esercito disordinato dei sopravvissuti sbarca sulle spiagge dell’esilio già ingombre dei cadaveri che il mare ha rigettato: strano paradiso, quello che in genere, molto rapidamente, prende la forma di campi di internamento.
L’altro mondo, quello al quale vorrebbero accedere e che continua a sfuggirgli, non riescono mai a raggiungerlo. Resta un miraggio, anche per chi riesce a penetrarvi clandestinamente. Non c’è niente di più tragico del destino di questi individui presi in trappola tra due negazioni: quella dell’origine e quella del presente, ma condannati a sperare, tuttavia, o piuttosto a ripetere, per sfuggire al nonsenso totale. Finite, allora, o rinviate a più tardi, le sottili distinzioni tra nonluoghi empirici e nonluoghi teorici, le considerazioni sfumate sulle varie relazioni che si possono avere con spazi diversi.

Le immagini che abbiamo sotto gli occhi ci mostrano innanzitutto individui che hanno perduto il loro luogo senza averne trovato un altro, individui doppiamente assegnati ai nonluoghi, in un certo senso. Spesso gli africani in fuga strappano i loro documenti di identità per evitare, una volta presi, di essere rimandati nel Paese d’origine: come non-persone hanno una maggiore possibilità di aggrapparsi un po’ più a lungo ai nonluoghi sui quali sono andati ad arenarsi. Del resto, sono proprio due mondi quelli che si scontrano: un mondo da cui bisogna fuggire per sopravvivere e un mondo che fa di tutto per respingere questa invasione della miseria, erige muri per contenerne gli assalti, fa pattugliare le frontiere dalle forze dell’ordine, raffina i metodi di indagine e apre campi per parcheggiarvi coloro che sono riusciti, malgrado tutto, ad arrivare.

Da un lato, quindi, i nonluoghi dell’abbondanza (aeroporti, autostrade, supermercati). Dall’altro, i nonluoghi della miseria: rifugio, a volte (quando accolgono, come accade in Africa, le masse in fuga a causa dei massacri e della repressione), e prigione (quando vi si rinchiudono quelli che hanno infine messo piede sulla terra promessa). Sempre, contemporaneamente, rifugio e prigione, oggetti, allo stesso tempo, del controllo poliziesco e dell’assistenza umanitaria.

Che cos’hanno in comune questi due tipi di nonluoghi? Più di quanto non sembri, forse. Perché è evidentemente proprio nei punti di contatto e di passaggio da un mondo all’altro — gli aeroporti, i grandi assi stradali, i porti — che si mettono in atto meccanismi di difesa. Inoltre, sono i mezzi di trasporto più caratteristici della nostra epoca (gli aerei e i loro carrelli d’atterraggio, i grossi camion e i loro container) a fornire al clandestino un veicolo e un nascondiglio.

Gli aeroporti hanno le loro sale di detenzione e gli espulsi vengono caricati su aerei di linea o su charter. I punti di passaggio hanno un’importanza strategica. È là che si dispiegano i mezzi di sorveglianza più perfezionati, ma è sempre là, nel punto di congiunzione tra i due mondi, che passano i turisti. Attratti dall’esotismo, dalla sabbia, dal sole o dal sesso, vi si affollano per recarsi nei Paesi che i migranti cercano di lasciare.
Questi due movimenti che vanno in senso inverso (il turismo e la migrazione) si incrociano e si ignorano. È inevitabile pensare, vedendo una coppia occidentale distesa sotto l’ombrellone, intenta a rilassarsi contemplando il mare a due passi da un cadavere arenato sulla spiaggia, che l’immagine è emblematica della nostra epoca.

Marc Augé, Corriere della Sera, 12 luglio 2010
Thanks to Eddyburg

martedì 13 luglio 2010

La sicurezza di Obama e quella di Bush

Se è possibile cambiare lessico, è possibile cambiare tutto - ma non dimentichiamo che si tratta sempre della stessa lingua. Mi è venuta in mente la sensazione che ho provato quando è stato eletto Bush, e quella, del tutto simile ma più vicina e cocente, alle elezioni di Berlusconi.
Se Bush non è più al governo allora forse....
E resto convinta che lamentarsi non serva a niente.


Data di pubblicazione: 01.06.2010

E' certamente legittimo leggere il documento di Barack Obama sulla strategia di sicurezza nazionale americana come un'operazione di «cosmesi linguistica» priva di qualsiasi discontinuità reale rispetto all'era Bush, come autorevolmente ha fatto venerdì scorso su questo giornale Tariq Ali misurandola sulla parabola della guerra in Afghanistan e sulla questione israelo-palestinese. Ma è legittimo anche, spero, riconoscere al linguaggio una valenza non meramente cosmetica bensì performativa, e riconoscere nell'impianto culturale del testo di Obama una svolta di 180 gradi rispetto a quello omologo di Bush jr del 20 settembre 2002. Si sa del resto che rispetto all'operato di Obama sempre ci si divide fra il disincanto chi sta agli atti e l'incantamento di chi punta sulla sua visione del mondo; non stupisce dunque che sia così anche stavolta. Ma leggendo in sequenza i due testi, quello di George W. Bush e questo, è davvero difficile non rovesciare la diagnosi della continuità reale che permane sotto il maquillage di una discontinuità apparente in quella, opposta, di una discontinuità radicale che si afferma malgrado la continuità della guerra.

Fra i due testi, del resto, corre meno di un decennio che però vale un'epoca: la discontinuità è nei fatti prima che nelle idee, e l'ha scavata la storia prima che la politica. Il documento di George W.Bush uscì esattamente un anno dopo l'attacco alle Torri gemelle, quando già tutti gli osservatori e i pensatori più avvertiti del pianeta avevano saputo leggere in quell'evento il sintomo della configurazione del mondo globale e delle sue inedite ed esplosive contraddizioni; eppure, a distanza di dodici anni dalla caduta del Muro di Berlino, Bush poteva ancora consentirsi di giocare tutto l'armamentario ideologico della Guerra fredda e tutto il trionfalismo occidentale sulla fine della Guerra fredda per riconfermare arrogantemente la volontà di potenza degli Stati uniti come destino, un destino attaccato ma non intaccato dall'«incidente» dell'11 settembre.

Per Bush, l'ordine mondiale era ancora una creatura nelle mani della potenza americana, uscita trionfalmente vincente dal confronto col Nemico comunista; per ripristinare l'ordine dopo l'attacco di Al Quaeda, bastava ripristinare l'immaginario del Nemico, trasferendolo dal comunismo all'Islam e agli «stati canaglia» e spostando la linea del fronte dalla cortina di ferro al Medioriente. Di nuovo, e terribile, ci mise la dottrina della guerra preventiva e infinita, la prassi della sfigurazione della Costituzione all'interno e del diritto internazionale all'estero, la tortura, Guantanamo, le corti speciali e quant'altro. Era un'analisi completamente sbagliata, in primo luogo perché il nuovo nemico terrorista era reticolare e non statuale, virale e non territoriale, nasceva dall'interno e non dall'esterno dell'Occidente e dei suoi misfatti, e la trasposizione su di esso del vecchio Nemico della Guerra fredda era puramente fantasmatica; ma quell'analisi ebbe la sua nefasta presa sull'immaginario americano e mondiale, e diventò la base della teoria e della pratica dello «scontro di civiltà», corredato di un vessillo - l'esportazione con la forza all'estero dei valori democratici traditi all'interno - e di un corollario - il neoliberismo come braccio economico della guerra all'estero e della de-costituzionalizzazione all'interno.

Niente di questa devastante armatura ideologica sopravvive nel testo di Obama. Non la certezza della potenza come destino, ormai ridimensionata dall'emersione nel frattempo avvenuta delle potenze mondiali nuove, e sostituita dalla consapevolezza che la leadership americana va rifondata in un tempo «di transizione» e di cambiamemnto globale. Non l'arroganza neoliberista, nel frattempo sconfitta dalla «più grande recessione con cui ci siamo trovati a confrontarci dalla Grande depressione in poi». Non l'analisi del nemico, che non è più l'Islam ma «uno specifico network terrorista», e non ha più il volto fantasmatico dell'Altro ma «è tra noi, qui a casa». Non la dottrina nefasta della guerra preventiva e infinita, sostituita da quella della «guerra necessaria e giusta», nefasta anch'essa ma quantomeno meno dilagante, e consapevole che dalle ultime guerre l'America è stata «indurita» e indebolita.

Non lo sfregio della Costituzione, cui viene contrapposto il richiamo imperativo alla legalità. Non la crociata dell'esportazione della democrazia, perché «la nostra leadership morale deve basarsi sulla forza dell'esempio e non sull'imposizione del nostro sistema ad altri popoli». Non lo schema dello scontro di civiltà, perché la forza dell'America sta e resta nella miscela di colori e di culture che l'ha fatta crescere. E nemmeno, infine, quell'idea esclusivamente militare della sicurezza che faceva del testo di Bush la bandiera oscurantista di un paese assediato e senza speranza: per Obama, «sicurezza» vuol dire anche crescita sostenibile, investimento sul futuro, sulla conoscenza e sulle giovani generazioni, il nemico non è fatto solo di terroristi ma anche di armi atomiche, rischi ambientali, trappole tecnologiche. E' vero, la guerra in Afghanistan resta, e tanto più dopo i fatti di ieri il Medioriente si ripresenta come l'«hic Rhodus» di Obama. Ma non è poco quello che è cambiato.

da Dominijanni, su il Manifesto, 1° giugno 2010 - preso da qui

Osservazioni sull'umanità

Tocqueville, osservando le condizioni della società americana orientata alla democrazia ugualitaria, previde «una folla innumerevole di uomini simili e uguali, che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri, con cui soddisfare il proprio animo. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è come estraneo al destino degli altri: i suoi figli e i suoi amici più stretti formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, è vicino a loro, ma non li vede; li tocca, ma non li sente; vive solo in se stesso e per se stesso, e se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia patria. Al di sopra di costoro s´innalza un potere immenso e tutelare, che s´incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Assomiglierebbe al potere paterno, se, come questo, avesse per fine di preparare gli uomini all´età virile; ma al contrario, cerca soltanto di fissarli irrevocabilmente nell´infanzia» (La democrazia in America, 1840, libro II, parte IV, capitolo VI).
da Zagrebelsky, Gustavo, Quel che rende unico ogni individuo, La Repubblica, 27 marzo 2010